Alberto

Alberto
" Bene vixit qui bene latuit "

venerdì 16 agosto 2013

Seme d'anguria



La notte appena passata mi sta addosso come un vestito sporco e stazzonato. Le luci del porto di Helsinki si spengono per lasciare il passo all’alba che sbadiglia il suo indaco. Mi sembra di avere gli occhi al posto delle ginocchia. Non ho mal di testa e questo è un lusso. Sono le cinque del mattino. Cammino sulla linea di mezzeria della mia faticosa libertà. Il peso della mia sacca ormai è il mio peso. E’ il mio sasso rotolante. Ho sempre pensato che un giorno o l’altro mi sarei disfatto di qualunque zavorra. Sacca. Coperta. Radio. Via tutto. Mani leggere. Mi sarei tenuto solo il telo di alluminio dove avvoltolarmi la notte per dormire sul retro di qualche cascina o dietro uno di quei locali lungo la strada dritta in mezzo ai boschi fiancheggiata da due muraglie di tronchi chiari e affusolati. Altissimi. Impegnati a sparare su nel cielo il verde dei loro cappelli piumati. Sono perfetti. Armoniosamente inquadrati come un plotone di reclute pronte per il giuramento. Questi locali sono una via di mezzo tra il bar e la taverna. Più o meno degli autogrill aperti tutta la notte. Sul retro si trovano sempre gli sfiatatoi dell’aria che spruzzano dalle grate ondate di vento al gusto di fritto e di salse unte. Ma è un vento caldo questo vento macedonia. E questo è quello che importa. Stendo il telo a terra proprio sulle grandi grate e mi ci impacco come una sardina. Tiro la sacca sotto la testa e anche il cuscino è a posto. Il rischio di dormire così non è tanto quello di venire scoperti da qualche banda di motociclisti ubriachi che la notte scorazzano da un posto all’altro in cerca di un’altra birra e di qualche rissa. No. Il rischio vero sono i topi. Sono gli animali notturni attirati dagli odori del cibo e dell’immondizia che macera nei grandi bidoni. E lì gira di tutto. Lupi. Orsi. Puoi far la fine di uno caduto in una vasca piena di piranha. Sì mi terrei solo il telo d’alluminio. E’ sottilissimo. Materiale usato per gli astronauti. Se lo pieghi con cura può stare in un tascone. Eccolo il mare. Le navi. Tutto sembra ancora grigio. Non so quando ci sarà un imbarco per Stoccolma. I soldi per il biglietto li tiro su in un paio d’ore. Per il biglietto e per un panino con le aringhe in quel chiosco che sta facendo proprio la mia strada. Mi siedo sul bordo di un’aiuola a un paio di metri di distanza dal piccolo baracchino che sfrigola olio e pesce. E’ una posizione strategica. Passano tutti di qui per andare e tornare dopo aver inghiottito qualcosa giusto per avere la necessità di scolarsi poi due o tre Elephant fresche. E tutti o quasi fanno scivolare nella mia mano il resto ricevuto. La notte che verrà dormirò in Svezia. E la cosa a cui penso sempre quando viaggio e cambio posto è che il posto dove mi troverò c’è già. Ci sono già quella panchina o quel prato o quell’ultimo piano di un condominio oppure quel vagone merci. La nuova tana che mi accoglierà c’è già. Esiste in questo preciso istante. E’ là. Da qualche parte oltre il mare. Ma la scoprirò solo quando le consegnerò il mio sonno o la mia solita solitaria pensierosa veglia. Un tipo basso con un cappello floscio sulla testa grossa e rossa con un cappotto leggero ormai senza forma sopra una camicia più stropicciata di me infilata a casaccio dentro un paio di pantaloni di velluto a coste marrone e un paio di occhialini tondi in bilico sul naso stranamente piccolo mi passa accanto si ferma e senza dire una parola mi dà un panino con una specie di salume e una Carlsberg ghiacciata. Si allontana facendomi il gesto di ok con le dita e mentre già con la bocca piena biascico un thanks si infila le mani nel brutto cappotto e si allontana a testa china col passo di uno che non ha più interesse a vedersi camminare per le strade che fa. Vado matto per i panini dei chioschi. I rumori della città lentamente entrano in questa storia con la pazienza di chi sa che a breve ne sarà il protagonista assoluto. Vado matto per la loro eco e per i colori vocianti che gettano ora su un molo ora sul ramo di questo pino dove un passerotto canterino aspetta anche lui paziente le briciole delle mie briciole. Vado matto per la pazienza.

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