Alberto

Alberto
" Bene vixit qui bene latuit "

La consistenza dell'anguria sotto i denti




Il giorno che scappai dal manicomio iniziò alle cinque e quarantacinque di un’indifferente mattino freddo e innevato. Imbozzolato nel giaccone mani sotto le ascelle mento sul petto mi addormentai con angolazione ottusa appoggiato al palo della fermata dell’autobus che tra cinque minuti mi avrebbe risucchiato via. Colletto alzato uso cuscino. Il fiato caldo era un ottimo impianto di riscaldamento autonomo. Fu l’autista a svegliarmi con uno sboccato richiamo divertito e un colpo di clacson. Il bus era piccolo. Arancione. Prima si chiamava Ottantotto. Poi gli cambiarono nome e divenne il Quarantatre. Non l’ho mai capita. Ottantotto. Quarantaquattro. Però gli dipinsero due belle larghe bande verdi a incorniciargli il tetto che ostentava fiero come se gli avessero cucito i gradi sul bavero. Insomma. Il Quarantatre graduato. Nato già con un cromosoma in meno mi aspettava fumando e mugugnando. Salii. Le solite facce. Ancora convinte di essere nel letto. Nessuno aveva voglia o necessità di parlare. Chiuse le porte ripartimmo pattinando un poco. Dopo avere fatto un buco con la mano di guanto di lana nel vapore condensatosi sul finestrino mi accorsi di fissare con malinconia il palo che mi tenne abbracciato poco prima. Si allontanava lentamente al mio sguardo rimpicciolendo. Mi sentii per un attimo come se stessi partendo per il fronte con la tradotta lasciando sulla banchina la bella morosa immobile in lacrime e incredula schiaffeggiata dal vento e già vedova di baci e carezze. Quasi mi commossi prima di sprofondare nello stesso torpore che stendeva la sua pesante coperta su tutta la stufetta arancio-verde che arrancando incatenata alle ruote mi stava portando alla Sesta. Venti minuti e arrivai a destinazione.  Dopo aver timbrato il cartellino salutato chi mi salutava fare cenni a chi me li faceva tacendo con chi taceva presi il vialetto che conduceva alla Sesta Divisione. Pur essendo ancora all’aria aperta e pressappoco a duecento metri dall’edificio cominciai a sentire il fetore di alcool denaturato miscelato con lisoformio in parti uguali. Eppure quell’odore ancora non abitava l’aria  mentre affondavo con gli scarponi nella neve. Un piacere sensuale calpestare una bella collinetta di neve fresca e intonsa e penetrarla senza fatica. Il vento leggero era deciso freddo e con bollicine e sapeva di gote rosse. La terra emanava i suoi umidi e austeri aromi concimando il cielo bianco e impassibile. No. Non esisteva ancora quell’odore tra quelli del legno bagnato e delle foglie al macero che profumavano il cammino. Non esisteva. Ma io lo sentivo. Raccolsi due mani di neve candida e ci affondai il viso. Respirai con tutta la mia forza per immagazzinare quanta più aria bianca nei polmoni prima di infilare la chiave e entrare. Una tra la trentina di chiavi che formavano il mazzo. Chiusi la porta alle mie spalle. Ancora a chiave. Rimasero fuori assiepati all’ingresso gli orfani cristalli dei miei sogni che rassegnati si misero ad aspettarmi con il mento tra le mani seduti sul muretto di fronte. Nel piccolo atrio mattonelle rosse e muri pistacchio. Una panca di ferro con la seduta in plastica grigia sorretta da quattro gambette rugginose magre e severe. Ho sempre pensato che fosse il cadavere imbalsamato di qualche bella vecchia panchina. Cercavo di immaginare quanto dovesse essere stata bella da giovane. Passai davanti all’ascensore fermo a meno due. La lavanderia. Ed ecco. La nube cominciò ad avvolgermi nelle sue spire e a stritolarmi sempre un po’ di più fissandomi affamata. Era una nube gassosa e grassa con l’alito che puzzava di piscio di merda di caffelatte e focaccia pucciata nel disinfettante. Cominciai a salire i pochi gradini che terminavano la loro corsa davanti alla porta a vetri del reparto. Chiusa. A chiave. Cercai nel mazzo il colore giusto. Trattenni il respiro. Aprii. Rituale di ogni inizio turno. Dal giorno in cui venni assunto. Avevo diciotto anni”.

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"Prendete un metronomo. Mettetelo in azione ad una qualsiasi velocità. Ora battete gli indici sul tavolo e cercate di tenere il tempo. Quando sarete precisi e costanti il vostro ritmo si sovrapporrà a quello del metronomo. Se sarete perfetti non lo sentirete più. Il metronomo. Non sentii nulla quando premetti il grilletto. Il rinculo della pistola fu come un pugno in retromarcia. La canna era a un paio di centimetri dalla sua nuca. Solo odore. Di bruciato. E di pollo andato a male. E sangue. Tanto sangue. Un brandello di materia spugnosa come gelatina livida si fermò sulla punta della mia scarpa destra. Nera. Lucida. Il resto del cervello era sparso un po' ovunque. Una parte pendeva dalla metà di cranio rimasta intera. Dal tronco di un ulivo lì vicino ne colava un'altra manciata come resina. Il resto era a mollo nella grande pozza di sangue nero tutto intorno. Sembrava il vomito di un ubriaco. Vino e spaghetti. Dal centro della pozza un occhio perfettamente rotondo mi fissava ostinato. Lo schiacciai con la suola. Mi pulii la scarpa sui pantaloni di quel bastardo. E sull'erba. Risalii in macchina e diedi un passaggio alla notte. Né io né lei sapevamo dove saremmo andati. Ma nessuno seppe più nulla di noi. Mai più".

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"Volevo farlo. Da tanto tempo. E l'ho fatto. Ho preso una tanica piena di spirito e l'ho rovesciato alle mie spalle. Poi ho acceso una scelta e l'ho gettata dietro di me. Ho dato fuoco al passato. Lo sentivo ardere. Lo guardavo bruciare. Come bruciano le pagine di un giornale che trattengono ostinate la propria forma e si tingono di grigio argento. E su quei fogli di fragile cenere che si contorcono in una danza macabra offrendosi inermi e osceni alla voluttà della fiamma rimane impressa la filigrana dei negativi delle fotografie e delle parole. Puoi decidere di osservarle ancora per un certo tempo. Prima che un colpo di vento le spazzi via. O le disperda il semplice rimestare un bastoncino tra quelle bucce bruciate di vita. E subito crollano in polvere."

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"Tre del mattino. Rientro. Apro il portone di casa. Ho fatto gli ultimi duecento metri come se fossi seguito. Passo spedito. E' ormai abitudine. Perché? Anche adesso mentre infilo la chiave nella serratura del portone. Corro! Mi fermo. Me ne accorgo.  Faccio punto nave. Sono col mio cane. Nessuno mi aspetta. Nessuno mi insegue. Solo inutile fretta. E disattenzione. Rallento tutto. Osservo tutto. Ora mi accorgo anche del vento. Vedo le mia mano girare lentamente la chiave nella toppa. Il mio piede sulla passatoia rossa appena lavata che porta ai primi scalini bianchi e lucidi. Odori. E nel salire adagio i cinque piani quello che mi accompagna è quello di focaccia. Si indora nel forno del panificio nei fondi del palazzo. Buono. Caldo. Misto a pane. Quante sorprese negli angoli del tempo. Attimi infiniti. Croccanti. Profumati. Amici che aspettano solo te. Pazienti. Aspettano. Senza fretta."

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- Tu hai la sindrome di monopolio di attenzione -
La voce di Antonio è fresca e ombreggiata come fresca e ombreggiata è la stanza dove stiamo chiacchierando. Seduto sulla sua poltrona bordeaux
in abito blu e cravatta regimental a decorare la camicia azzurra. Psicologo. Pedagogo. Criminologo. In realtà non so per quale delle tre specialità sono venuto a consulto. Be’ almeno con lui si può decidere all’ultimo minuto. Bello avere delle opzioni. Guardi oggi il mio superio mi fa girare i coglioni. Senta da piccolo mamma non mi ha dato il capezzolo. Dottore credo che entro questa sera squarterò qualcuno. Busta uno. Busta due. Busta tre. Questo cazzo di divano però non è per niente comodo. Non mi mette a mio agio. Ci si sprofonda e l’equilibrio è instabile. E’ probabile sia tutta una tattica. La psicopedocrimianalisi è diabolica. Il mio porto d’attracco è il limite del lato sinistro. Vicino alla finestra. Lì posso ancorarmi al largo e sorprendentemente solido bracciolo che sembra appartenere a un divano di altra e ben più robusta tempra. E’ balbuziente. Ed è un amico. Antonio. Lo psicopedacriminologo. Alle volte no. Non balbetta. Quando parla in pubblico per esempio fila via liscio con un ritmo e un movimento della voce che letteralmente ipnotizza. E’ come se ti rovesciassero sciroppo d’oppio nelle orecchie. Ha classe Antonio. Ma al telefono è una tragedia. Il telefono per lui è un campo minato. Le parole escono come se dovessero attraversare un campo minato. Saltellanti. Sincopate. Circospette. Passi lenti. Lunghi. Ben distesi. Immobilità. Attesa. Per lui il telefono è un plotone d’esecuzione col colpo in canna pronto a fucilare qualunque suono o pausa abbia il coraggio di attraversare correndo il check-point. Per lui il telefono è un capestro insaponato di fresco sospeso sopra una enorme bocca spalancata dove far penzolare le parole impiccate. Fino a che non vengono inghiottite. Insomma. Meglio parlargli a quattr’occhi. C’è un minimo di fluidità in più. Ecco perché sono qui. Nel suo studio. Porta sempre belle scarpe Antonio.  Il calzino lungo di cotone blu si inoltra elegantemente sotto l’ala del calzone. In lui tutto è pulito. La vera d’oro salda sul bell’anulare sinistro. Dita curate. Belle. Tutto è fresco in lui. Profumato. Al polso il Patek Philippe con il cinturino di pelle liscia di colore marrone a farsi vezzeggiare dal libidinoso polsino netto e ben stirato che spunta da sotto la manica impeccabile. Quasi uno spettacolo per vojeurs. Rassicurante. Sensuale. Perverso. Osservo il piccolo grazioso orologio discretamente esposto su un ripiano del mobile di fronte al divano. E’ un modo per consentire al cliente di tenere sotto controllo autonomamente la scadenza dei suoi sessanta minuti terapeutici senza metterlo troppo in imbarazzo. Renderlo responsabile del proprio tempo. Bravo Antonio. Ci vuole tatto in queste cose. Ho deciso. Non scelgo nessuna delle tre buste. Oggi mi gioco il jolly.
- Ho paura di ammalarmi –
Gli dico guardando oltre i vetri della finestra cercando di contare le foglie in capo a un ippocastano gigante”.

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Me la sentivo colare dal naso. Raramente sbaglio nel percepire quel che accadrà. Il fatto è che sono distratto. Non do il giusto peso agli oracoli. Dovevo tornare a casa. Quella sera dopo essermi scolato una bottiglia di cattivo scotch insieme a Angelo con lo stereo a palla che sparava Ramones tarantolati dal picco di una collinetta che dominava il paesello e con l’acido che montava dovevo tornarmene a casa. Ero ospite di Angelo. Sardo. La collinetta era sarda. Il paese lì sotto era sardo abitato da sardi. Dalla nostra postazione la musica rotolava giù come una frana. Lì per lì ero tranquillo se mi si passa il termine. Angelo è del posto. Sa cosa fa. E cosa non deve fare. I sardi sono splendida gente. solo un po’ permalosi. Comunque leali. Se siamo qui a urlare e a bere facendo un casino del diavolo a mezzanotte passata e se Angelo lo fa con me vuol dire che non ci sono problemi. Ora non sto qui ad entrare nei dettagli di come proseguì la serata sardo-punk ma un paio di ore dopo mi ritrovai accovacciato a uovo sull'asfalto di un vicolo cieco del paese la schiena contro il muro di una casa. Il coltello cominciava a premere un po’ troppo sulla mia gola. Erano in tre a picchiare. E uno voleva scannare. Furiosi. Bestiali. Ubriachi. Sardi. Dopo i primi colpi comincio a non sentire più alcun dolore. Troppo concentrato a salvare faccia testa e stomaco. La schiena è al sicuro. Quello con la lama cade. Perde l’equilibrio. Ubriachi. E quindi non perfettamente in grado di rimanere in asse. Si apre un varco inaspettato. Come il topo che scatta verso la tana mi libero degli altri due e fuggo. Fuggo ammaccato e fiero. Fiero dell’aver sopportato tutto. E corro. Corro. Corro. Corro tantissimo. Leggero come un'antilope".

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“Armida rosicchia il suo bastone. Il mare e il vento hanno trovato la quadra. Si sono calmati. Calde le pietre. La spiaggia è deserta. Rosicchia rosicchia dolce Armida. Io sto. Nel cielo più stelle di quante possa tenerne. Un buona sera con saluti e risate legate alla coda vola giù dalla via di sopra sgusciando tra le pieghe dei sorrisi di uomini che si incrociano.  Mi passa ad ali spiegate proprio sulla testa. Si tuffa veloce ingoiato dal nero di un'onda. Un tipo dà della puttana alla sua donna. E allora fai quello che vuoi. Risponde lei calma. Rosicchia rosicchia dolce Armida. Sotto questa luce blu. Lo sciabordio placido dell’acqua è un delicato pizzo a ornare di frange lo stupore di quest’attimo”. 

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La paura si infila all'improvviso. Un pensiero. Un tuffo dal cuore. Giù a capofitto nelle tubature della tua personale fogna. Si respira. Che culo. E poi comunque è tutta roba tua. Non fa odore. La tua puzza non puzza. Per te. Le puzze degli altri puzzano. E allora giù. Fin dove si può. Deve pure avere una sorgente. Magari di merda ma deve averla una sorgente questa cazzo di paura. Un tuffo al cuore. Dirigere il traffico del panico. Per andare dalla fontanella al buco del culo e ritorno ci si può mettere un attimo come una vita. E' tutta una questione di competenza.

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Ritrovare il perenne cuore bambino. Riconoscersi. Ritrovarsi. La recita è finita. Faticosissima. Usurante.  Consapevoli dell'illusione di questo mondo. Della realtà. Abbiamo rovesciato i termini della questione. Pensiamo d'esser vivi e siamo morti. Pensiamo che moriremo e invece morirà solo la morte. Essere gentili con noi stessi e il mondo non è più un esercizio di volontà ma è un impulso che viene dal profondo e significa solo una cosa. Rispetto. Per sé. Per l'altro. Per ogni forma vivente. E ogni cosa vive. Dal sasso alla stella. Perché siamo ogni cosa. Perché saremo ogni cosa. Metanoia di natura. Consapevolezza. Grazia. Alcuni si avvicinano all'imbocco del sentiero che li porterà verso di essa grazie a un dolore crudo e rovente.  Altri ne saranno colpiti in un attimo nel momento più sereno della loro esistenza. Altri ancora non la percepiranno mai. Almeno a questo giro. La Grazia è questo stato. Pulizia di cuore e cervello. Raggiungere lo stato della perenne sorpresa. Un cocktail in cui shakerare Karl Rossmann e Candido. E' avere un lago quieto nel cuore. Percorrendo la via. La Consapevolezza è come un rattin sarvaegu  per dirla in genovese. Un gattino selvatico. Fulmineo nella sua velocità e imprendibile qualora si volesse afferrarlo e trattenerlo. Solo con estrema pazienza si riesce a conquistarne la fiducia nutrendolo a poco a poco da distante. Allora si avvicinerà. Cauto. Sempre un po' di più. Nel tempo. Poi arriverà alla nostra mano e ci annuserà e in quel momento assisteremo stupefatti ad una riconoscenza. Solo se il nostro cuore saprà parlare con lui deciderà di restare. E resterà per sempre. La Consapevolezza è un rattin sarvaegu.

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Che uomo piccolo e stupido sono. Ripeto sempre gli stessi errori. La pasta è pasta e una volta amalgamata è impossibile separarne gli ingredienti. Cos'è che cambia allora quando si cambia? La masticazione? La digestione? L'assorbimento? L'evacuazione? Sapere di essere un piccolo e stupido uomo e tutto sommato esserne contento? Il salto mortale dell'abbandono? Ci vuole coraggio. Mai tornare indietro. Dritti verso la sentenza. Cocciuti e determinati alla bella morte. Un'ultima boccata alla sigaretta prima di soffocarla nel posacenere come farei volentieri con i miei stupidi pensieri. E spengo la luce.

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Respira respira respira. Respira. Non sono certo venuti per ammazzarti. Respira respira. Tre chiamate. Prima. Improvvise. Cadute come mannaie su questo pomeriggio idiota. Fredde come lame che entrano nella carne. La quarta è servita per fissare l'appuntamento. La sentenza si conoscerà a minuti. La corte si sta raccogliendo per giudicare. Aspettano solo me. Cazzo. Respira. Scendi e respira. Tranquillo. Non hai fatto nulla. Tranquillo. Respira. O vieni tu o ti troviamo noi. Vengo io. Sto scendendo. Ancora. Squilla. Sì. Sono qui. Sto scendendo. Sì sono tranquillo. Calmo calmo calmo. Respira. Sono! Calmo! Non ho fatto nulla. Un cazzo di niente. Niente. Respira. Respira. Respira. Non ti ammazzeranno. Forse. Aspetta un attimo. Aspetta. Aspetta. Respira. Ora esci. Esci. Vai

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Parcheggiato. A pettine. Venti minuti in anticipo. Fa freddo. Me ne sto in macchina e fumo un'altra sigaretta. Una finestra. Vetro su vetro una finestra oltre il parabrezza. Davanti a me. Tende tirate. Bianche. Luce fioca dentro. Sul vetro l'addobbo frettoloso e sgraziato di una cometa luminosa messa in verticale. Di forma incerta. Nella cornice affianco l'ombra nera scontornata di un gatto. Immobile nel suo calmo respiro. Un balcone triste e solo a lato. Piccolo. Buio. Una cella senza soffitto. Una scopa e uno stendino chiuso. Chissà perché il tutto mi fa venire in mente la minestrina tanto da sentirne l'odore. E la spugna del cuore s'inumidisce. Lentamente

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Per me spesso le facce della gente si trasformano in odori. Oggi per esempio una ragazza aveva un profilo che mi ha ricordato l’odore della coccoina. La colla. Sono percezioni improvvise. La linea di un naso. La forma delle labbra. La struttura del cranio. L’immagine mi trasmette istantaneamente un profumo. Ho annusato un po' di tutto. Un tipo era proprio aroma di nafta. Ho annusato la chiglia di una barca al sole grazie al volto di un farmacista. Un misto di alghe e catrame. Ci sono in giro persone detersivo facce da primo piatto espressioni naftalina. Il viso che colpì con più violenza le mie narici questo pomeriggio fu quello di un tipo sulla quarantina. Fermo alla fermata del bus come me. Aveva una faccia che sapeva di bistecca al sangue.

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Il mare borbotta e ha lo scazzo. Il cielo è viola. Stormi di gabbiani volteggiano sopra il mio balcone. O sono avvoltoi? Mi sono svegliato tranquillo. Bene. Riposato. Male. Mi sento proprio bene. E questo mi fa paura. Proprio ora mi accorgo di essere immerso da un paio d’ore in questo calore colore che mi fa canticchiare. Leggero. Solo che per me è come la scarica elettrica che prende la cavia quando mette la zampa dove non deve. E’ stimolo neuronale Pavloviano. Sono in arrivo grane. In genere quando tiro un sospiro di sollievo riesco a terminare solo la fase di inspirazione. Arrivato sù qualcosa crolla. L’espirazione è un me lo aspettavo. La mia vita è ferma a un incrocio dove sono trent’anni che non scatta il verde. Motore al minimo. Riserva schietta. Ma una nave non spegne mai i suoi motori. Nemmeno in porto.

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Il pensiero è una barriera architettonica. A volte. Quando penso che sto pensando troppo penso che penso solo per dare dignità al tempo. Farlo scorrere senza dirmelo. Oppure per non volermi accorgere che non passa mai. Il tempo. Perché mai nasce e mai muore. Comunque ci sono tipi e tipi di pensieri. Alle volte sono piacevoli. Alle volte solo a fine giornata ti accorgi che quella spina che ti porti nel cuore e che non riuscivi ad associare a nulla, improvvisamente la riconosci. Magari una cazzata. Certamente una cazzata. Una cosa umana insomma. Ma hai avuto ancora paura. Poca. Solo una spia dell'olio accesa. Ma ancora. Il pensiero è libero. E' una bella frase. Davvero. E io ne sono portatore sano della libertà del mio pensiero. E ne sono orgoglioso. Si sente talmente libero che ha deciso di sparare solo cazzate. Ma anche lui è un animale addomesticabile. Il più feroce a volte. Letale. Ma addomesticabile. Non lo so. Forse funziona così. Forse ti accorgi che la clessidra è capovolta. Che sopra e sotto cambiano davanti ai tuoi occhi. Comunque penso che scrivere sia diverso che pensare. Pensare è nuvola. Scrivere è pioggia.

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Così come nascendo si comincia a morire appena si parte si inizia a tornare. Pensavo. Mentre camminavo senza meta nella città sconosciuta. La mia centesima città sconosciuta. Improvvisamente come un rubato sorriso in fondo al viale alberato sbocciò una piazza. Un impermeabile di pioggia. Ecco cosa vorrei per attraversare queste giornate bollenti. Che mi piova dentro. Una pioggia costante. Leggera. Che il cuore possa pompare in confidenza. Appoggiarmi a un muro con una spalla. E osservare.

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C'è un momento. Prima di scivolare nel sonno mentre il sole filtra attraverso le tapparelle in un tiepido crepuscolo estivo. C'è un momento nel quale un martello che picchia in distanza e la sua eco. La pernacchia di un motorino che si allontana zanzarando sulla strada. Le voci che si accavallano e ridono a scoppio in chissà quale angolo del vicinato. C’è un momento in cui questa sinfonia ovattata fa scendere su di me un magico trine di reviviscenza antica. Una ricordata memoria di un eterno presente. Immobile nel suo divenire.

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Tutte le notti. Infilandomi dentro il sacco a pelo, sotto il gazebo del piccolo parco di Lappeenranta, riparato dalla pioggia e con un caldo pavimento di legno sotto la schiena, mi sembra di essere in una suite all'Hotel Ritz di Parigi. Tutte le notti. Da mesi. Lo stesso sogno. La stessa trama. Negli stessi luoghi. Qualcosa bolle in pentola e non sono certo che la pietanza sia di mio gusto. Ma chiedo ugualmente che sia aggiunto un posto a tavola. Non posso arrestare il processo. Fino in fondo. Giù. A capofitto. Riarmare la curiosa pazienza. Frena. Rallenta. Stai tranquillo. E non parlare a bocca piena. Essere incapaci a vivere. Disorientati dall'esistere. Potere a volte riuscire a raccontarlo. A scriverlo o suonarlo. Dipingerlo. Danzarlo o scolpirlo. Questo è il misero solitario salario di chi no sa essere uomo. Se a volte precipita una lacrima serve a pulire la pagina o la tela. Cosicché si possa ancora lasciare una traccia da cancellare. Tutte le notti. Mi ubriaco di me.

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Ho preso il treno. Al pelo. Per un istante ho valutato se fosse meglio prenderlo salendoci o prenderlo nella schiena buttandomici sotto. Un altro viaggio verso il no. Un altro etto di rabbia in tasca. E comincio a sudare.

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La notte appena passata mi sta addosso come un vestito sporco e stazzonato. Le luci del porto di Helsinki si spengono per lasciare il passo all’alba che sbadiglia il suo indaco. Mi sembra di avere gli occhi al posto delle ginocchia. Non ho mal di testa e questo è un lusso. Sono le cinque del mattino. Cammino sulla linea di mezzeria della mia faticosa libertà. Il peso della mia sacca ormai è il mio peso. E’ il mio sasso rotolante. Ho sempre pensato che un giorno o l’altro mi sarei disfatto di qualunque zavorra. Sacca. Coperta. Radio. Via tutto. Mani leggere. Mi sarei tenuto solo il telo di alluminio dove avvoltolarmi la notte per dormire sul retro di qualche cascina o dietro uno di quei locali lungo la strada dritta in mezzo ai boschi fiancheggiata da due muraglie di tronchi chiari e affusolati. Altissimi. Impegnati a sparare su nel cielo il verde dei loro cappelli piumati. Sono perfetti. Armoniosamente inquadrati come un plotone di reclute pronte per il giuramento. Questi locali sono una via di mezzo tra il bar e la taverna. Più o meno degli autogrill aperti tutta la notte. Sul retro si trovano sempre gli sfiatatoi dell’aria che spruzzano dalle grate ondate di vento al gusto di fritto e di salse unte. Ma è un vento caldo questo vento macedonia. E questo è quello che importa. Stendo il telo a terra proprio sulle grandi grate e mi ci impacco come una sardina. Tiro la sacca sotto la testa e anche il cuscino è a posto. Il rischio di dormire così non è tanto quello di venire scoperti da qualche banda di motociclisti ubriachi che la notte scorazzano da un posto all’altro in cerca di un’altra birra e di qualche rissa. No. Il rischio vero sono i topi. Sono gli animali notturni attirati dagli odori del cibo e dell’immondizia che macera nei grandi bidoni. E lì gira di tutto. Lupi. Orsi. Puoi far la fine di uno caduto in una vasca piena di piranha. Sì mi terrei solo il telo d’alluminio. E’ sottilissimo. Materiale usato per gli astronauti. Se lo pieghi con cura può stare in un tascone. Eccolo il mare. Le navi. Tutto sembra ancora grigio. Non so quando ci sarà un imbarco per Stoccolma. I soldi per il biglietto li tiro su in un paio d’ore. Per il biglietto e per un panino con le aringhe in quel chiosco che sta facendo proprio la mia strada. Mi siedo sul bordo di un’aiuola a un paio di metri di distanza dal piccolo baracchino che sfrigola olio e pesce. E’ una posizione strategica. Passano tutti di qui per andare e tornare dopo aver inghiottito qualcosa giusto per avere la necessità di scolarsi poi due o tre Elephant fresche. E tutti o quasi fanno scivolare nella mia mano il resto ricevuto. La notte che verrà dormirò in Svezia. E la cosa a cui penso sempre quando viaggio e cambio posto è che il posto dove mi troverò c’è già. Ci sono già quella panchina o quel prato o quell’ultimo piano di un condominio oppure quel vagone merci. La nuova tana che mi accoglierà c’è già. Esiste in questo preciso istante. E’ là. Da qualche parte oltre il mare. Ma la scoprirò solo quando le consegnerò il mio sonno o la mia solita solitaria pensierosa veglia. Un tipo basso con un cappello floscio sulla testa grossa e rossa con un cappotto leggero ormai senza forma sopra una camicia più stropicciata di me infilata a casaccio dentro un paio di pantaloni di velluto a coste marrone e un paio di occhialini tondi in bilico sul naso stranamente piccolo mi passa accanto si ferma e senza dire una parola mi dà un panino con una specie di salume e una Carlsberg ghiacciata. Si allontana facendomi il gesto di ok con le dita e mentre già con la bocca piena biascico un thanks si infila le mani nel brutto cappotto e si allontana a testa china col passo di uno che non ha più interesse a vedersi camminare per le strade che fa. Vado matto per i panini dei chioschi. I rumori della città lentamente entrano in questa storia con la pazienza di chi sa che a breve ne sarà il protagonista assoluto. Vado matto per la loro eco e per i colori vocianti che gettano ora su un molo ora sul ramo di questo pino dove un passerotto canterino aspetta anche lui paziente le briciole delle mie briciole. Vado matto per la pazienza.

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Il primo lungo intenso vero sguardo d'amore e tante carezze sulla mia barba. La mano fredda un rametto d'ossa eppure morbida dice tutto quel che non puoi ormai dire e che mai ci siamo detti. Un attimo. Basta un attimo. Il fresco balsamo di un attimo. E c'è dentro tutta la vita.

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L'amore va fatto al mattino. La pelle è ancora assonnata. Calda. Soffice. Sa di biscotto. Gli abbracci sono dita nella marmellata. Le bocche affamate di baci. E tutto è rotondo e giusto.

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La signora Rossi era di Bologna. Arrivò in reparto da noi una mattina di inizio estate. Non ricordo da quale altra struttura e il perché venne trasferita alla sesta divisione. Qui da noi. Al manicomio di Quarto. Una signora distinta la signora Rossi. Sulla cinquantina passata ma il viso era quello di una bimba. Un bel viso. Pieno. Le labbra carnose e ben disegnate. La testa ornata da riccioli castano scuro sempre in ordine e curata. Si sarebbe detto a prima vista il volto di una persona in pace e in sintonia col ritmo segreto del mondo. Indossava sempre vestiti sobri semplici e graziosi in perfetto abbinamento con il suo sorriso aperto e contagioso. Una collana di perle adagiata su un collo forte e pulsante di vita. La sistemarono al piano seminterrato. Il reparto femminile occupava il piano seminterrato e metà circa del piano terra. L’altra metà era reparto maschile che terminava poi la sua folle corsa invadendo l’intero primo piano su di sopra. Tre piani. Tre canestri di dolori. Tre vassoi sempre colmi offerti alla fame della nostra presunzione. Prestavo servizio sia al maschile che al femminile alla bisogna. Rotazione di turni e presenze. Ci volle poco per sciogliere una docile se pure segregata confidenza. Si voleva bene alla signora Rossi. Poco tempo passò che entrò a far parte di quel piccolo gruppo di degenti che avevano il permesso di uscire autonomamente e che tutto il personale utilizzava per farsi comprare le sigarette o la focaccia o per sbrigare qualsiasi altra piccola commissione. Il capo riconosciuto di questo piccolo plotone era la Maria. Alta. Secca. Con uno sguardo da rapace. I capelli grigi le cascavano come le paglie di una scopa rovesciata appoggiata per scherno in equilibrio precario sulla piccola ossuta testa. Ma gli occhi azzurri erano acqua di fonte pura. Addosso il più delle volte una specie di palandrano scuro che in origine era forse stato un cappotto. Denti neri dal fumo. Era bella la Maria. E simpatica. E affatto stupida. Il mese scorso festeggiammo il suo settantesimo compleanno e ognuno le diede una piccola somma per le sue spese. Felice lei. Avrebbe comunque continuato a raccogliere mozziconi anche se con quel tesoretto si sarebbe potuta permettere almeno due o tre stecche di Nazionali Esportazione. Non mi capacitavo di come riuscisse a camminare così velocemente e senza alcuno sbandamento portata a spasso da gambe così lunghe e filiformi. Stecchi che macinavano migliaia di piccoli passi leggeri e selvatici. Ma una notte cadde. Una notte fedele sposa di nubi scure e vento e pioggia con le fibre dell’odore di brodo e purea rancida dell’ultima cena ancora appese ai muri come tristi festoni ingialliti di una vecchia serata danzante dove pure sono risuonate al tempo voci e risate. In una notte così. Come tante. Una notte da niente. La Maria cadde. Cadde nel sonno più profondo dove non serve equilibrio. Probabilmente non se lo sarebbe aspettato nemmeno lei di cadere durante l’unico suo momento di immobilità. Dormendo. Cadde senza far rumore. Infatti se ne accorsero al cambio di turno del mattino. Girata su un fianco. Nel suo letto. con le mani lunghe e magre ognuna al caldo sotto l’ascella opposta. Si abbracciava quando dormiva Maria. Se ne andò di certo con quel suo sorriso torvo e malizioso che portava sempre con sé che sembrava volerti dire guarda che a me non la si fa mentre gli occhi come sempre vigili e freddi ti scrutavano l’anima per capire se di te si sarebbe potuta fidare o meno. Il ritrovamento avvenne intorno alle sette. Un’ora dopo sul pavimento del piccolo atrio del reparto giaceva la bara d’acciaio a cucchiaio. Vuota. Maria apparve avvoltolata in un lenzuolo bianco sorretto a capo e ai piedi da due della mortuaria. Ho qui con me in questo istante il rumore secco delle sue ossa che picchiano sulla lamiera quando vi fu lasciata scivolare come si lascia cadere un pesce dentro la cassetta in pescheria. Mi ha trafitto quel suono. Spuntò il piede destro da sotto il telo e rimase per poco in bilico sull’orlo della cassa di ferro. Il più grasso dei due becchini piegandosi a fatica e sbuffando lo prese per la punta della scarpa e lo mise al suo posto affianco all’altro. Indossava ancora le sue scarpette di panno nero. E sicuramente sotto al lenzuolo avrà avuto ancora indosso il suo cappotto. Spesso ci dormiva nel suo cappotto. Chiusero il guscio e la portarono via in un silenzio malato che sottolineava la pura routine piuttosto che un qualsiasi tipo di compassione. La signora Rossi era stata la sua ultima recluta e fra loro due c’era stato da subito un forte affiatamento quasi naturale. La signora Rossi. Non sapevo cosa avesse e perché fosse lì e non avevo alcuna voglia di chiederlo. Chiunque l’avrebbe presa per una buona zia. Una mamma amorosa e scaltra. La vicina di casa cordiale e sì forse un poco con la testa fra le nuvole. Non volevo sapere cosa si nascondesse dietro tutta quella normalità. Forse quella presunta occulta follia mi incuteva una paura sottile e paralizzante. Non lo chiesi mai. Ma quando una mattina entrai in
servizio al femminile e mi affacciai in reparto senza vederla gironzolare come se fosse appena uscita dal parrucchiere come era solita fare qualcosa cominciò a sibilare ad altissima frequenza nel mio cervello. I colleghi mi indirizzarono con piccoli gesti dei muscoli facciali verso la vetrata grande come una finestra che permette un’ampia vista dell’interno della Stanza Nuda. Una stanza dove non c’era nulla se non il pavimento le pareti il soffitto e un materasso. Per sicurezza di chi vi venisse chiuso a chiave. Nessun oggetto. Nulla che potesse essere usato per autolesionismo o per offesa. Mi avvicinai come in stato di ipnosi. Lentamente. Poi vidi. Una vetrata grande come una finestra mi separava dalla signora Rossi. Una finestra sull’orrore. Era nuda ricoperta di lividi e bruciature di sigaretta ovunque. I muri sporchi di sangue e feci. Seduta in una pozza di urina mi fissava assente. Mi accorsi che solo i suoi riccioli erano ancora più o meno a posto. Mi chiamarono dal cucinino degli infermieri per avvisarmi che la focaccia e il caffelatte erano pronti. Mandai giù la mia colazione facendola passare attraverso la gola stretta più del solito. Mi sembrava di inghiottire pezzi di carne umana sorseggiando caldo sangue sporco di terra. Improvvisamente mi domandai che fine avesse fatto la sua bella collana di finte perle bianche.

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Non c’è nulla di romantico nel dolore e nella solitudine. Sono formativi. Ma non romantici. Ne facciamo letteratura quando l’abbiamo alle spalle o prima che ne sopraggiunga uno successivo. La misura di quel che dico la si trova forse in fondo a una riflessione sul momento in cui si piange. Si piange davvero? Siamo onesti nel farlo? Quanto c’è già di letteratura in un pianto? Ci piacciamo? Mentre piangiamo? Ci guardiamo? Siamo davvero liberi almeno in questo momento dalla microcamera che abbiamo installata nel cervello? Riusciamo ad avere una nostra intimità? Me lo chiedo ogni volta che mi succede. Cerco di capire se lo sto facendo per un immaginario pubblico. Anche per l’unico spettatore presente in quel momento. Me stesso. E così la maggior parte delle volte il pianto si strozza si arresta rallenta e ingolfa. Altre poche volte sembra di essere davvero pianto e non di piangere. Anche questa è libertà. Ecco. Riusciamo a essere davvero pianto e smetterla di piangere? Questo maledetto riso è troppo salato. E’ che quando finisco il sale grosso e passo al fino non ho la giusta misura nel dosarlo. Lo ingoio lo stesso. Non ho altro. Tra poco avrò un fuoco nello stomaco e più berrò acqua più il fuoco divamperà. Giuro che domani compro il sale grosso. Lo dico da tre settimane ma domani lo faccio. Anche le lacrime sono salate. E anche qui forse si tratta di abilità nel dosare il sale che le rende più o meno sincere. Il sale del proprio dolore. Grosso o fino? Sembra una stupidaggine ma fa la differenza. La differenza tra letteratura e vita.

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Precipitato da un incubo. Mi sono fracassato il sonno. Da un po’ di tempo non faccio che tagliare teste. In genere le ripongo in buste da discount. Buste bianche. Non troppo chiassose. Per una testa ne uso almeno tre una dentro l’altra poi all’ultima un bel nodo doppio e rimangono come due orecchie di coniglio perfette per infilarci indice e medio quando si dovesse trasportare il fagotto. Non faccio distinzione tra uomo e donna. Taglio senza discriminazioni. Il sangue. Ci sono periodi che penso sempre al sangue. E questo è uno di quelli. Rossa pozione che affascina e terrorizza. Che ti chiama e ti respinge. Autorevole il sangue. Imprendibile. Imprevedibile nei suoi schizzi. Nelle sue voluttuose traiettorie. Nel suo spandersi a volte denso di fiotti sciropposi a volte fluido come il getto di una fontanella. L’odore stordisce i sensi. Può capitare di rimanere paralizzati alla sua vista. Non è normale vedere il sangue fuori dalle vene. Quelle sono il suo posto. Così come non è normale sentire la terra che trema quando c’è un terremoto. La terra è ferma. Per noi è un fatto acquisito. Dimentichiamo spesso che pascoliamo su una palla di pietra con una crosta nemmeno troppo spessa piena di roccia fusa in ebollizione. Quindi quando questa cosa che dovrebbe stare ferma si muove ci butta nel panico. Anche vedere il sangue fuori dalle sue sedi è uno shock. In un modo o nell’altro ci ipnotizza. Il sangue. Quando lo si incontra per la strada una parte di noi gira la testa inorridita per non vedere dovendo vincere la resistenza di una forza uguale e contraria che ci bisbiglia invece di guardarlo e di berlo con gli occhi.

 



 






 






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