Alberto

Alberto
" Bene vixit qui bene latuit "

martedì 27 agosto 2013

Seme d'anguria



La signora Rossi era di Bologna. Arrivò in reparto da noi una mattina di inizio estate. Non ricordo da quale altra struttura e il perché venne trasferita alla sesta divisione. Qui da noi. Al manicomio di Quarto. Una signora distinta la signora Rossi. Sulla cinquantina passata ma il viso era quello di una bimba. Un bel viso. Pieno. Le labbra carnose e ben disegnate. La testa ornata da riccioli castano scuro sempre in ordine e curata. Si sarebbe detto a prima vista il volto di una persona in pace e in sintonia col ritmo segreto del mondo. Indossava sempre vestiti sobri semplici e graziosi in perfetto abbinamento con il suo sorriso aperto e contagioso. Una collana di perle adagiata su un collo forte e pulsante di vita. La sistemarono al piano seminterrato. Il reparto femminile occupava il piano seminterrato e metà circa del piano terra. L’altra metà era reparto maschile che terminava poi la sua folle corsa invadendo l’intero primo piano su di sopra. Tre piani. Tre canestri di dolori. Tre vassoi sempre colmi offerti alla fame della nostra presunzione. Prestavo servizio sia al maschile che al femminile alla bisogna. Rotazione di turni e presenze. Ci volle poco per sciogliere una docile se pure segregata confidenza. Si voleva bene alla signora Rossi. Poco tempo passò che entrò a far parte di quel piccolo gruppo di degenti che avevano il permesso di uscire autonomamente e che tutto il personale utilizzava per farsi comprare le sigarette o la focaccia o per sbrigare qualsiasi altra piccola commissione. Il capo riconosciuto di questo piccolo plotone era la Maria. Alta. Secca. Con uno sguardo da rapace. I capelli grigi le cascavano come le paglie di una scopa rovesciata appoggiata per scherno in equilibrio precario sulla piccola ossuta testa. Ma gli occhi azzurri erano acqua di fonte pura. Addosso il più delle volte una specie di palandrano scuro che in origine era forse stato un cappotto. Denti neri dal fumo. Era bella la Maria. E simpatica. E affatto stupida. Il mese scorso festeggiammo il suo settantesimo compleanno e ognuno le diede una piccola somma per le sue spese. Felice lei. Avrebbe comunque continuato a raccogliere mozziconi anche se con quel tesoretto si sarebbe potuta permettere almeno due o tre stecche di Nazionali Esportazione. Non mi capacitavo di come riuscisse a camminare così velocemente e senza alcuno sbandamento portata a spasso da gambe così lunghe e filiformi. Stecchi che macinavano migliaia di piccoli passi leggeri e selvatici. Ma una notte cadde. Una notte fedele sposa di nubi scure e vento e pioggia con le fibre dell’odore di brodo e purea rancida dell’ultima cena ancora appese ai muri come tristi festoni ingialliti di una vecchia serata danzante dove pure sono risuonate al tempo voci e risate. In una notte così. Come tante. Una notte da niente. La Maria cadde. Cadde nel sonno più profondo dove non serve equilibrio. Probabilmente non se lo sarebbe aspettato nemmeno lei di cadere durante l’unico suo momento di immobilità. Dormendo. Cadde senza far rumore. Infatti se ne accorsero al cambio di turno del mattino. Girata su un fianco. Nel suo letto. con le mani lunghe e magre ognuna al caldo sotto l’ascella opposta. Si abbracciava quando dormiva Maria. Se ne andò di certo con quel suo sorriso torvo e malizioso che portava sempre con sé che sembrava volerti dire guarda che a me non la si fa mentre gli occhi come sempre vigili e freddi ti scrutavano l’anima per capire se di te si sarebbe potuta fidare o meno. Il ritrovamento avvenne intorno alle sette. Un’ora dopo sul pavimento del piccolo atrio del reparto giaceva la bara d’acciaio a cucchiaio. Vuota. Maria apparve avvoltolata in un lenzuolo bianco sorretto a capo e ai piedi da due della mortuaria. Ho qui con me in questo istante il rumore secco delle sue ossa che picchiano sulla lamiera quando vi fu lasciata scivolare come si lascia cadere un pesce dentro la cassetta in pescheria. Mi ha trafitto quel suono. Spuntò il piede destro da sotto il telo e rimase per poco in bilico sull’orlo della cassa di ferro. Il più grasso dei due becchini piegandosi a fatica e sbuffando lo prese per la punta della scarpa e lo mise al suo posto affianco all’altro. Indossava ancora le sue scarpette di panno nero. E sicuramente sotto al lenzuolo avrà avuto ancora indosso il suo cappotto. Spesso ci dormiva nel suo cappotto. Chiusero il guscio e la portarono via in un silenzio malato che sottolineava la pura routine piuttosto che un qualsiasi tipo di compassione. La signora Rossi era stata la sua ultima recluta e fra loro due c’era stato da subito un forte affiatamento quasi naturale. La signora Rossi. Non sapevo cosa avesse e perché fosse lì e non avevo alcuna voglia di chiederlo. Chiunque l’avrebbe presa per una buona zia. Una mamma amorosa e scaltra. La vicina di casa cordiale e sì forse un poco con la testa fra le nuvole. Non volevo sapere cosa si nascondesse dietro tutta quella normalità. Forse quella presunta occulta follia mi incuteva una paura sottile e paralizzante. Non lo chiesi mai. Ma quando una mattina entrai in
servizio al femminile e mi affacciai in reparto senza vederla gironzolare come se fosse appena uscita dal parrucchiere come era solita fare qualcosa cominciò a sibilare ad altissima frequenza nel mio cervello. I colleghi mi indirizzarono con piccoli gesti dei muscoli facciali verso la vetrata grande come una finestra che permette un’ampia vista dell’interno della Stanza Nuda. Una stanza dove non c’era nulla se non il pavimento le pareti il soffitto e un materasso. Per sicurezza di chi vi venisse chiuso a chiave. Nessun oggetto. Nulla che potesse essere usato per autolesionismo o per offesa. Mi avvicinai come in stato di ipnosi. Lentamente. Poi vidi. Una vetrata grande come una finestra mi separava dalla signora Rossi. Una finestra sull’orrore. Era nuda ricoperta di lividi e bruciature di sigaretta ovunque. I muri sporchi di sangue e feci. Seduta in una pozza di urina mi fissava assente. Mi accorsi che solo i suoi riccioli erano ancora più o meno a posto. Mi chiamarono dal cucinino degli infermieri per avvisarmi che la focaccia e il caffelatte erano pronti. Mandai giù la mia colazione facendola passare attraverso la gola stretta più del solito. Mi sembrava di inghiottire pezzi di carne umana sorseggiando caldo sangue sporco di terra. Improvvisamente mi domandai che fine avesse fatto la sua bella collana di finte perle bianche.

2 commenti:

  1. Non tutti gli scrittori hanno il dono di farti amare subito i loro personaggi, soprattutto quando questi sono dolenti figli di un dio minore.Alcuni invece li ammantano di una tenerezza speciale. Penso a Paula, di Roddy Doyle, e penso alla tua Maria, meravigliosa nei gesti, negli sguardi, nel suo palandrano sgraziato, nel dolore abbracciato di notte. E la signora Rossi...mi viene voglia di andare a cercargliela la sua collana, e di ridargliela. Si sarà davvero sentita nuda, senza.

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