La signora Rossi
era di Bologna. Arrivò in reparto da noi una mattina di inizio estate. Non
ricordo da quale altra struttura e il perché venne trasferita alla sesta
divisione. Qui da noi. Al manicomio di Quarto. Una signora distinta la signora
Rossi. Sulla cinquantina passata ma il viso era quello di una bimba. Un bel
viso. Pieno. Le labbra carnose e ben disegnate. La testa ornata da riccioli
castano scuro sempre in ordine e curata. Si sarebbe detto a prima vista il
volto di una persona in pace e in sintonia col ritmo segreto del mondo.
Indossava sempre vestiti sobri semplici e graziosi in perfetto abbinamento con
il suo sorriso aperto e contagioso. Una collana di perle adagiata su un collo
forte e pulsante di vita. La sistemarono al piano seminterrato. Il reparto
femminile occupava il piano seminterrato e metà circa del piano terra. L’altra
metà era reparto maschile che terminava poi la sua folle corsa invadendo l’intero
primo piano su di sopra. Tre piani. Tre canestri di dolori. Tre vassoi sempre
colmi offerti alla fame della nostra presunzione. Prestavo servizio sia al
maschile che al femminile alla bisogna. Rotazione di turni e presenze. Ci volle
poco per sciogliere una docile se pure segregata confidenza. Si voleva bene
alla signora Rossi. Poco tempo passò che entrò a far parte di quel piccolo
gruppo di degenti che avevano il permesso di uscire autonomamente e che tutto
il personale utilizzava per farsi comprare le sigarette o la focaccia o per
sbrigare qualsiasi altra piccola commissione. Il capo riconosciuto di questo
piccolo plotone era la Maria. Alta. Secca. Con uno sguardo da rapace. I capelli
grigi le cascavano come le paglie di una scopa rovesciata appoggiata per
scherno in equilibrio precario sulla piccola ossuta testa. Ma gli occhi azzurri
erano acqua di fonte pura. Addosso il più delle volte una specie di palandrano
scuro che in origine era forse stato un cappotto. Denti neri dal fumo. Era
bella la Maria. E simpatica. E affatto stupida. Il mese scorso festeggiammo il
suo settantesimo compleanno e ognuno le diede una piccola somma per le sue
spese. Felice lei. Avrebbe comunque continuato a raccogliere mozziconi anche se
con quel tesoretto si sarebbe potuta permettere almeno due o tre stecche di
Nazionali Esportazione. Non mi capacitavo di come riuscisse a camminare così
velocemente e senza alcuno sbandamento portata a spasso da gambe così lunghe e
filiformi. Stecchi che macinavano migliaia di piccoli passi leggeri e selvatici.
Ma una notte cadde. Una notte fedele sposa di nubi scure e vento e pioggia con
le fibre dell’odore di brodo e purea rancida dell’ultima cena ancora appese ai
muri come tristi festoni ingialliti di una vecchia serata danzante dove pure
sono risuonate al tempo voci e risate. In una notte così. Come tante. Una notte
da niente. La Maria cadde. Cadde nel sonno più profondo dove non serve
equilibrio. Probabilmente non se lo sarebbe aspettato nemmeno lei di cadere
durante l’unico suo momento di immobilità. Dormendo. Cadde senza far rumore. Infatti
se ne accorsero al cambio di turno del mattino. Girata su un fianco. Nel suo
letto. con le mani lunghe e magre ognuna al caldo sotto l’ascella opposta. Si
abbracciava quando dormiva Maria. Se ne andò di certo con quel suo sorriso
torvo e malizioso che portava sempre con sé che sembrava volerti dire guarda
che a me non la si fa mentre gli occhi come sempre vigili e freddi ti
scrutavano l’anima per capire se di te si sarebbe potuta fidare o meno. Il
ritrovamento avvenne intorno alle sette. Un’ora dopo sul pavimento del piccolo
atrio del reparto giaceva la bara d’acciaio a cucchiaio. Vuota. Maria apparve
avvoltolata in un lenzuolo bianco sorretto a capo e ai piedi da due della
mortuaria. Ho qui con me in questo istante il rumore secco delle sue ossa che
picchiano sulla lamiera quando vi fu lasciata scivolare come si lascia cadere
un pesce dentro la cassetta in pescheria. Mi ha trafitto quel suono. Spuntò il
piede destro da sotto il telo e rimase per poco in bilico sull’orlo della cassa
di ferro. Il più grasso dei due becchini piegandosi a fatica e sbuffando lo prese
per la punta della scarpa e lo mise al suo posto affianco all’altro. Indossava
ancora le sue scarpette di panno nero. E sicuramente sotto al lenzuolo avrà avuto
ancora indosso il suo cappotto. Spesso ci dormiva nel suo cappotto. Chiusero il
guscio e la portarono via in un silenzio malato che sottolineava la pura routine
piuttosto che un qualsiasi tipo di compassione. La signora Rossi era stata la
sua ultima recluta e fra loro due c’era stato da subito un forte affiatamento
quasi naturale. La signora Rossi. Non sapevo cosa avesse e perché fosse lì e
non avevo alcuna voglia di chiederlo. Chiunque l’avrebbe presa per una buona
zia. Una mamma amorosa e scaltra. La vicina di casa cordiale e sì forse un poco
con la testa fra le nuvole. Non volevo sapere cosa si nascondesse dietro tutta
quella normalità. Forse quella presunta occulta follia mi incuteva una paura
sottile e paralizzante. Non lo chiesi mai. Ma quando una mattina entrai in
servizio al
femminile e mi affacciai in reparto senza vederla gironzolare come se fosse
appena uscita dal parrucchiere come era solita fare qualcosa cominciò a
sibilare ad altissima frequenza nel mio cervello. I colleghi mi indirizzarono
con piccoli gesti dei muscoli facciali verso la vetrata grande come una
finestra che permette un’ampia vista dell’interno della Stanza Nuda. Una stanza
dove non c’era nulla se non il pavimento le pareti il soffitto e un materasso.
Per sicurezza di chi vi venisse chiuso a chiave. Nessun oggetto. Nulla che
potesse essere usato per autolesionismo o per offesa. Mi avvicinai come in
stato di ipnosi. Lentamente. Poi vidi. Una vetrata grande come una finestra mi
separava dalla signora Rossi. Una finestra sull’orrore. Era nuda ricoperta di
lividi e bruciature di sigaretta ovunque. I muri sporchi di sangue e feci.
Seduta in una pozza di urina mi fissava assente. Mi accorsi che solo i suoi
riccioli erano ancora più o meno a posto. Mi chiamarono dal cucinino degli
infermieri per avvisarmi che la focaccia e il caffelatte erano pronti. Mandai
giù la mia colazione facendola passare attraverso la gola stretta più del solito.
Mi sembrava di inghiottire pezzi di carne umana sorseggiando caldo sangue
sporco di terra. Improvvisamente mi domandai che fine avesse fatto la sua bella
collana di finte perle bianche.
Non tutti gli scrittori hanno il dono di farti amare subito i loro personaggi, soprattutto quando questi sono dolenti figli di un dio minore.Alcuni invece li ammantano di una tenerezza speciale. Penso a Paula, di Roddy Doyle, e penso alla tua Maria, meravigliosa nei gesti, negli sguardi, nel suo palandrano sgraziato, nel dolore abbracciato di notte. E la signora Rossi...mi viene voglia di andare a cercargliela la sua collana, e di ridargliela. Si sarà davvero sentita nuda, senza.
RispondiEliminagrazie!
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