E’ un piccolo parto. Ogni volta che accade. Sono sempre
piccoli parti quando concepisci la bolla. Una bolla. Impalpabile. Leggera e
trasparente. Incerta. Labile. Come una bolla di sapone. Nasce. Cresce. Si
stacca poi dal tuo fondo e sale. Sale. Indistruttibile fragilità. Traslucida
goccia di spirito d’acciaio. Sale fino a esploderti nel cervello e subito la
vedi spiccare nell’invisibile. Farsi luce. E la luce colpisce lo schermo dietro
la fronte. Nel suo viaggio verso di te la bolla trasporta lei pure nel vuoto
gravido grembo le schiere a migliaia dei tuoi attimi. Un vuoto pieno. L’abitudine
ci spinge a chiamarlo passato. Nel passato si stipano ricordi. E questo rimane
un grande equivoco. No non parlo di questo. Non parlo di ricordi ma di
reviviscenza. Quel tuo vivere è sempre lì. In te. La tua vita tutta. Sempre. Vivo.
In attesa solo di un tuo fischio per poter uscire a prendere di tanto in tanto
una boccata d’aria. Ed è allo stesso tempo pregno dell’infinita possibilità di
cui già lui sa. Lui. L’attimo. La pigrizia ci invita a chiamarlo futuro. Stesso
paludoso equivoco. Qui. Sempre. Tutto. In te. Allo stesso tempo. La cattiva
confidenza di calcolare il tempo è una pessima abitudine dalla quale non
riusciamo a liberarci. Lo schermo si illumina. Intorno scende una preziosa
oscurità. Tra poco verrà proiettata la magia. Il mistero. Nulla a che fare con
la sacra trilogia passato presente futuro. Le trilogie devono essere un vezzo
della nostra specie. Passato presente futuro. Padre Figlio Spirito Santo.
Inferno purgatorio paradiso. Pane amore fantasia. Ecco! Ecco le prime immagini.
Immagini di quel tutto che siamo. Solo una leggera messa a fuoco. Perfetto. Ora
vedo bene. Vedo un bambino seduto alla sua piccola scrivania. Quieto. Una bella
testa. La riga da una parte. Gli piace passare il palmo delle mani sulla
superficie verde morbidamente rugosa dello scrittoio. Al tatto quella materia
diventa promessa. Sono amici lui e la sua piccola scrivania appoggiata al muro
proprio sotto la finestra. Tre piccoli cassetti sulla destra ben allineati. Un
largo cassetto centrale. Rotonda. E’ tutta arrotondata e senza spigoli quella
radura verde sotto i suoi occhi. Un piccolo prato ben curato abbracciato tutto
intorno da morbido legno nocciola. Sotto la finestra. E’ immobile il bimbo. Un
maglioncino rosso col collo a V da cui spuntano le piccole ali della camicia bianca
a righine di sottile pastello grigio. Immobile e silenzioso osserva la pioggia
che piange sui vetri. Ascolta quel pianto. Rapito. Il cuore frigge di mille
bollicine. Perché quello che vede e che ascolta non è un pianto di dolore. E’
un pianto d’emozione. Sono lacrime piovute
dal cielo che commosse vengono a salutare di là dal vetro chi sempre è lì ad
aspettarle. Immobile. Silenzioso. Osserva con orgoglio i polsini della camicia
che ordinati fanno capolino dalle maniche di lana rossa e vanno a ornare le due
belle mani abbandonate sopra immaginari fogli bianchi pronti alla ventura.
All’odore di inchiostro e di gomma da cancellare. Di matite da temperare. Pantaloncini
corti calzini e scarpe. E la pioggia. L’unica cosa al mondo che colma il suo
piccolo delicato cuore di una pace amica. La pioggia e l’odore della carta.
Ecco si alza. Il naso ora sfiora la finestra. Le dita seguono i sentieri
spericolati delle gocce cadenti. La mano sinistra accarezza quella guancia di
vetro che lascia intravvedere oltre il velo del fiato il piccolo giardino di foglie
e di fiori inzuppato. E la ghiaia sulle cui punte aguzze le gocce sacrificano
sé stesse alla gioia del suo guardare. Questo ho visto. E in dissolvenza ecco
che si allontana il piccolo bambino silenzioso e quieto. Inciso in me per
sempre in quel gesto. Ho sentito di nuovo il vetro scambiare freddo con caldo.
Ho sentito ancora respirare i giovani
brividi sul palmo della mia mano. E il profumo dolciastro dello stucco
screpolato messo a sposare legno e vetro. Sono piccoli parti. Bolle di sapone.
Si può prendere fiato se si vuole. E generarne un’altra.
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